Intervista a Dropout

Dropout

Il compositore Dropout è un chitarrista per elezione ma synthesista per evoluzione. In continuo viaggio tra Italia, Inghilterra e Giappone crea musica che si unisce al mondo delle commissioni per ambienti, installazioni artistiche e danza contemporanea.

In questa chiacchierata con Dropout abbiamo parlato delle influenze dei suoi viaggi per il mondo, dei cambiamenti nella creazione della sua musica, del nuovo album Sulla fine delle cose e di molto altro!


Ciao e benvenuto Dropout! Tu sei un compositore e designer grafico, come riesci a far convivere nella tua vita questi due ruoli?

Non c’è una grande differenza in realtà, si tratta sempre di progettazione e comunicazione. Se il grafico però è un artista prestato alla realizzazione di artefatti comunicativi che devono sottostare a una logica di mercato piuttosto rigorosa. L’essere compositore preferisco tenermelo come area di “gioco” dove all’artista tutto è permesso. E soprattutto importante è che in questo ambito non ci sia nessuno tra me e l’ascoltatore che filtri ciò che esprimo.

Di qui la mia innata propensione ultimatamente a realizzare “in house” praticamente tutti i passaggi (idea, composizione, testi, cantato, suonato, missaggio, produzione, ecc.). Escluso il mastering, quello no. Lo faccio sempre realizzare esternamente perché a quello stadio c’è proprio bisogno di una rifinitura analitica, evitando di essere coinvolti emotivamente in tali decisioni.

Come Dropoout sei in continuo movimento tra Italia, Inghilterra e Giappone. Queste nazioni in qualche maniera influiscono sulla creazione della tua musica?

La questione fisica è una parte dell’equazione. E sicuramente incide quindi le frequentazioni di amici musicisti e/o concerti live nei rispettivi luoghi volente o nolente interferiscono sulla mia percezione del tipo di suono che sto pensando essere quello giusto in un determinato momento.

Però ormai la globalizzazione, soprattutto per via del supporto delle reti digitali, permette di essere influenzati da qualsiasi cosa e da qualsiasi cultura del mondo. Basta essere abbastanza curiosi per uscire dai solchi sempre più profondi delle strade obbligate, segnate dai soliti ben noti distributori digitali mainstream. Bisogna allora saper allontanarsi dalla clausura delle piattaforme ed esplorare il sottobosco del web. Una delle uniche piattaforme globali che attualmente mi vanno ancora a genio è Bandcamp. Perché in qualche modo permette l’esplorazione consapevole e non ti “disciplina” troppo con il suo algoritmo nell’atto della ricerca.

Il Giappone mi sta insegnando l’orchestrazione sontuosa mutuata dalle sue musiche Enka anni ’60 ’70. L’Inghilterra mi ha insegnato la capacità di condensare l’idea in una canzone di massimo 3-4 minuti. Questo in quanto, in principio tendevo come tutti i compositori elettronici in erba a proporre suite infinite.

I Beatles in questo sono l’esempio principe, soprattutto nel miscelare magari due idee contrapposte (Lennon & McCartney) in un unico breve pezzo.

Attualmente l’Italia, purtroppo, mi sta insegnando in che direzione non bisognerebbe andare. Cosa che mi fa abbastanza male.

Definisci il tuo progetto Dropout come chitarrista per elezione e synthesista per evoluzione. Cosa intendi con queste definizioni?

Che semplicemente ho approcciato alla musica tramite una chitarra classica trovata in casa. E per molti anni ho affinato principalmente quello strumento, mentre solo in un secondo momento mi sono innamorato anche dei sintetizzatori.

Ci ho messo parecchio a capire che nello specifico mi attiravano quelli analogici. Ma a mia discolpa, al periodo, non c’era quel tipo di internet che te lo poteva spiegare con dei semplici tutorial.

Come si intuisce dal mio nuovo disco Sulla fine delle cose la chitarra classica è rimasta uno strumento fondante del mio comporre, ma anche l’elettronica fa il suo.

Sei attivo sulla scena musicale dal 1996. Con il passare degli anni com’è cambiato il tuo approccio alla creazione di nuova musica?

Riascoltandomi trovo un parallelo tra quello che facevo a 15-18 anni con quello che stanno facendo i 15-18enni di oggi. La differenza magari sta che le influenze di allora erano più Rock (Grunge, Metal, Hard core, ecc.), Hip Hop old school, mentre oggi è più tutto derivato dalla Black Music e Urban anglosassone. Ma le tematiche giovani sono le stesse di sempre, forse addirittura (e purtroppo aggiungerei) più standardizzate. Sicuramente per via della telematica ubiqua tra gli individui.

Col tempo ho imparato a domare la composizione e fare le cose con la dovuta progettazione e tecnica, invece che subire l’improvvisazione. Mi spiego, se all’inizio andavo a comprare uno strumento differente per avere ispirazione alla composizione, adesso compro uno strumento perché mi serve quel preciso tipo di suono o modus operandi. Diciamo che adesso so in partenza ciò che voglio e dove voglio arrivare.

A volte però ho una sorta di nostalgia di quella incapacità/inconsapevolezza che mi portava in territori per me impensabili. Però a riascoltarmi ora mi rendo conto che erano comunque cose piuttosto limitate alle orecchie di un esperto, forse allo stesso modo di come percepisco ad esempio molta della Urban, Trap e pseudo-Rock che ho sentito in giro.

La vera trasgressione è sapere bene come si fanno le cose per poi avere la consapevolezza di stravolgerle, non stravolgere le cose a priori perché non si sa come farle.

Dropout

Il tuo nuovo album è Sulla fine delle cose, descrivilo usando tre aggettivi.

Sincero: viene da un periodo breve e serrato di lavoro di improvvisazione. Impresso come fossero delle istantanee polaroid, magari imperfetto nei dettagli ma secondo me onesto per quello che trasmette.

Intenso: non credo lo si possa sentire superficialmente, magari inserito in playlist con altri generi.

È un concetto, è un discorso organico, parla di temi universali, se lo ascolti e lo prendi per il modo giusto ti sa portare in dimensioni oniriche interessanti.

Senza tempo: penso si tratti di musica che al primo approccio possa ricordare qualcosa del passato ma in realtà presenta delle soluzioni abbastanza contemporanee, come ad esempio la metrica del testo, le melodie particolari e l’utilizzo di bassi profondi hip hop. Il disco l’ho composto due anni fa e finito un anno fa ma oggi trovo mantenga ancora perfettamente il suo senso.

Nella musica italiana si fa sempre più fatica a trovare dischi di musica strumentale, secondo te come mai c’è questo vuoto nel nostro Paese?

Il mercato mainstream da buoni 15 anni è una dittatura della figura del cantante, il musicista e il compositore sono eventualmente solo accessori da “noleggiare” se e quando necessario, tendenzialmente si ricorre addirittura al minimalismo del solo basso o del solo beat, anche se più che minimalismo io lo definirei “nullismo”. Con l’ausilio incontrollato dell’Autotune prima e con la AI poi credo che ne dovremo vedere ancora delle belle.

Vince il cantante, dicevo, soprattutto nella declinazione dello stile parlato alla rapper, perché è un ruolo che permette di entrare subito nel gioco e dire la propria, sfogare la propria urgenza, senza dover studiare uno strumento o una particolare tecnica di canto. La composizione musicale diventa pertanto un elemento dall’importanza relativa, per questo le melodie oggi sembrano assomigliarsi così tanto tra loro.

Raggiungere la padronanza di uno strumento è la prima chiave per uscire dal banale e quindi sbloccarsi da questo loop stantio del contemporaneo. Si tratta di una questione culturale, di una forma mentis. Penso che in questo le case discografiche abbiano una forte responsabilità perpetrando una assurda operazione imprenditoriale a bassissimo rischio dalla “minima resa con la minima spesa”.

I compositori e i musicisti a seguito di questa devastante contrazione sembrano essersi quasi tutti reinventati come produttori o sono migrati in ambito jazz, dove ancora è difficile fingere di essere quello che non si è. Infine per rispondere più precisamente alla domanda, la proposta banalizzante del mercato di cui sopra ha creato nel tempo una sorta di analfabetismo all’ascolto da parte del pubblico, di conseguenza la musica strumentale la si accetta oggi al massimo come colonna sonora unita alle immagini di un film, ma non certo come musica d’ascolto a sé stante.

Una traccia che mi ha colpito è Affinità al tempo del coprifuoco. Cosa ti ha portato a creare musica su un tema delicato come il coprifuoco che era tornato ai tempi del lockdown della pandemia?

Mi interessava l’idea di una conversazione tra due amanti che non si possono incontrare perché fuori il mondo è impazzito. Che sia un coprifuoco da pandemia o da guerra.

Trovo davvero potente e poetico che nonostante queste situazioni di enorme difficoltà e di pericolosità (reale o percepita) si riesca ancora a trovare una via per amare, vivere e sognare.

Ovviamente l’atmosfera del pezzo è intenzionalmente densa e soffocante, sussurrata e surreale.

L’idea è nata a cavallo degli ultimi lockdown del COVID e delle nuove limitazioni che stavano arrivando dovute al conflitto Ucraino.

Si tratta di una lettera cantata e affidata al silenzio della notte senza possibilità di sapere se dall’altra parte venga recepita.

Il disco si chiude con una versione live, come mai questa scelta?

Dopo 10 diverse declinazioni del concetto di Fine ho trovato interessante e necessario dare in chiusura una speranza di futuro all’ascoltatore, facendo cantare sguaiati e liberi i bambini dell’asilo. Il pezzo dona un senso di gioia e magari qualche sorriso dopo tante riflessioni adulte e piuttosto malinconiche.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

Cercare un modo sostenibile per una mia piccola nicchia di ascoltatori all’interno di un Sistema attualmente molto castrante per autori realmente indipendenti e alternativi. l’Algoritmo non considera niente che non sia per prima cosa estremamente disciplinabile e controllabile al fine unico di monetizzare. Ma l’Arte non si può e non si dovrebbe solo misurare con questo parametro, sono sicuro che in futuro sapremo meglio analizzare questa epoca, con molto stupore per come sia stata così stupidamente monolitica nonostante le infinite possibilità che presentava sulla carta.

Poi ovviamente nuova musica… sto già con entrambi i piedi all’interno del progetto successivo.


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