Intervista a Kuni

Kuni

La cantante Kuni è una ragazza profondamente innamorata del mondo dei videogiochi e affascinata dall’Estremo Oriente. Le sue canzoni nascono dai testi malinconici che unisce alle aspirazioni punk-rock e alle melodie dolci.

In questa chiacchierata abbiamo parlato del suo nome d’arte, della sua passione per il Giappone, del suo nuovo singolo Home to Me e di molto altro!


Ciao e benvenuta! Il tuo nome d’arte arriva dal videogioco Tekken. Una scelta coraggiosa in un mondo dove si pensa che il mondo dei nerd sia solamente maschile. Qual è il tuo rapporto con i videogiochi?

Ciao a voi! Una buona parte della mia infanzia l’ho passata col Game Boy Color (quello viola-trasparente) in mano e la mia borsetta “fattapposta”. In cui tenevo tutti i suoi accessori, a tracolla.

E ancora oggi tengo sempre a portata di mano il mio Nintendo DS. I videogiochi mi sono sempre piaciuti tantissimo, però devo dire non ne ho mai giocati molti. Sono una che entra in fissa con quelle tre o quattro cose e ci si ossessiona.

I miei preferiti di sempre sono Pokémon (vari), The Sims, Worms, Tomb Raider – Angel of Darkness, Super Mario Land e, ovviamente, Tekken. Poi c’erano tutti quei videogiochi in cd-rom a cui giocavo dal primissimo computer che abbiamo avuto a casa che erano pazzeschi. Il più bello di tutti era “Tip Top – Il mistero dei libri scomparsi”. Avrò avuto cinque o sei anni e me lo ricordo come fosse ieri!

Hai un amore incredibile per il mondo del Giappone come testimoniano la tua laurea in Lingue e civiltà orientali e le specializzazioni in Coreano e Giapponese. Come è nata questa grande passione?

Premesso che tutti i cartoni animati che guardavo da bambina erano rigorosamente Made in Japan e questo mi ha sicuramente permesso di creare un’affinità con almeno una delle infinite sfaccettature di questa splendida cultura, ricordo un momento molto preciso in cui ho preso maggiore consapevolezza della sua esistenza.

Ero in partenza per il camposcuola di terza media, avevo dodici anni, e come al solito ero al giornalaio della stazione per scegliere qualcosa da leggere durante il viaggio. Mi è cascato l’occhio su questa rivista fantastica che si chiamava Yatta! e che raccoglieva estratti di vari manga, oltre a news e racconti dal Giappone.

Mi sono innamorata alla follia di tutto quello che ho visto. Qualche anno più in là ho scoperto la cucina tradizionale e sono impazzita. Poi crescendo le cose si mescolano le une con altre e l’idea di studiare Lingue Orientali non mi è venuta fino ai diciotto anni – prima volevo fare lettere a tutti i costi.

Kuni

Hai mai pensato di unire il mondo della musica alla tua passione per l’estremo oriente?

Sì, nel corso degli anni ho avuto più volte questo pensiero, ma alla fine si è tradotto solo in alcuni tipi di scelte per lo più estetiche legate, ad esempio, alle grafiche del mio progetto. La musica prodotta fra Giappone, Corea e Cina è estremamente interessante, soprattutto nelle traduzioni dei generi contemporanei, ma tentare di far mie cose che non mi appartengono mi spaventa sempre molto, soprattutto se non si tratta di una questione privata.

Preferisco osservare, ascoltare e, poi, ispirarmi alle intenzioni e ai concetti profondi più che alle esecuzioni, agli “outcome” – non so se mi spiego. Ciò non mi ha comunque impedito di darmi un nome d’arte proprio in Giapponese, ma mi piace pensare che sia solo un omaggio a un personaggio che è stato importante per me!

La tua musica nasce dal mix di testi malinconici alle aspirazioni punk-rock. Come riesci a trovare un equilibrio tra questi mondi musicali?

Non sono certa di esserci ancora riuscita pienamente come vorrei, ma quello che cerco di fare sempre è essere il più possibile fedele a me stessa e alla musica che ho sempre ascoltato. Sono cresciuta con la musica del CBGB e con il punk-rock degli anni ’90 e dei primi 2000, ma sono anche sempre stata una da accordi minori, ecco. Penso che se si evita di forzarsi a fare cose di un certo tipo solo perché si immagina siano migliori di altre, prima o poi quello che ci appartiene viene fuori naturalmente.

Il tuo nuovo singolo è Home to me, descrivilo usando tre aggettivi.

Malinconico, nostalgico, sincero.

In questa canzone Casa simboleggia un luogo dove tu rimani in solitaria in compagnia solamente dei tuoi pensieri e fantasmi. Un’eccezione totalmente diversa dalla solita metafora in cui Casa è il luogo in cui ci si sente protetti e al sicuro. Perché hai voluto dare questo significato cupo?

Per me la casa è un luogo indispensabile, è letteralmente il posto che preferisco al mondo. Dentro casa succedono moltissime cose (al giorno d’oggi ancora più di prima) e prendono vita molte storie. Questo inevitabilmente significa, almeno per me, raccoglierne una varietà molto ricca, dalle più belle alle meno belle.

In questa canzone ho voluto raccontare l’aspetto meno luminoso di questo ambiente che, in effetti, è tradizionalmente più caldo e accogliente, perché c’è anche questo. Non credo valga solo per me: forse è lo stesso per chiunque, ad esempio, almeno una volta nella vita si è chiuso in camera a piangere per un tempo indefinito o per chi ha passato un sabato sera sul divano senza ricevere neanche un messaggio o una telefonata.

Casa è lo stesso posto in cui, molto spesso, perdiamo e ritroviamo le speranze. Viverne alcuni spazi con i fantasmi del passato significa per me non solo ricordare i momenti più tristi di quello che è stato, ma anche riconoscere i momenti positivi che sono venuti dopo.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

Per il momento, sto lavorando a nuovi brani in vista di una raccolta. Poi, che serà serà! Con la musica, mi piace decidere un po’ in corsa e lasciarmi ispirare da quello che succede sul momento.


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