Intervista a Frank Sinutre

Frank Sinutre

La cosa bella di questo blog è che va ad esplorare qualsiasi sotto genere della musica; oggi per esempio sono a scoprire, come un’Indiana Jones di Spotify, la musica elettronica e ho voluto conoscere meglio il gruppo Frank Sinutre. Il loro ultimo album è 200.000.00 Steps, il quarto lavoro discografico della band.

La nostra chiacchierata si è concentrata sulla loro carriera live, sull’idea di creare strumenti homemade e di molto altro. Buona lettura!


Ciao benvenuti! Iniziamo questa chiacchierata parlando del vostro nome Frank Sinutre, come lo avete scelto?

(Michele) Bisogna sapere che abbiamo data base di ogni sorta, una di mail a cui scrivere, una di canzoni abortite, uno di appunti di sciocchezze più o meno realizzabili e via così; anche per i nomi abbiamo una sorta di banca dati di nomi scritti sulla porta della nostra sala prove. Sulla porta infatti ci sono diversi potenziali nomi di band come ad esempio “Tutto SomMario” o “Fred Buonsenso” o “John Stavolta” o anche “Alex e le sue fandonie”. Ecco Frank Sinutre nasce proprio in questo modo, pescato da una lista di nomi papabili scritti su una porta.

In realtà ci serviva un nome che non necesitasse per forza di un logo, qualcosa che rimanesse in mente per associazione a qualcos’altro e questo fu il risultato.

La vostra musica è creata in maniera home-made con strumenti elettronici costruiti da voi. Questa è la caratteristica della vostra musica che mi ha colpito di piú… Perché avete deciso di fare musica in questa maniera rivoluzionaria?

(Isacco) Più che una decisione è stata una cosa naturale. Il primo reactaBOX infatti esisteva già prima dei Frank Sinutre. Lo avevo costruito dopo aver visto in azione un vero reacTable ad un concerto di Bjork nel 2008.

I FsN sono nati jammando insieme: reactaBOX e chitarra. Con questo setup abbiamo scoperto diversi lati positivi: libertà di improvvisazione, imprecisione quanto basta per dare un tocco di umanità, e il giusto limite alla libertà che, secondo noi, è il sale della creazione (hai 9 cubetti e devi farteli bastare).

Da allora ne abbiamo costruite tre versioni, migliorando sempre qualcosa.

La drummaBOX invece è una drum machine acustica costruita per fare concerti “unplugged”. Si programma dal PC come un qualunque sequencer, ma alla fine della catena ci sono dei martelli che colpiscono degli oggetti. Non la utilizziamo spesso perché ha un suono che era più adatto ai nostri primi dischi e difficilmente si amalgama con gli ultimi.

Frank Sinutre

Avete suonato in Italia, Slovenia, Svizzera, Croazia e Austria… avete un concerto che vi è rimasto piú impresso nella memoria?

(Michele) In questo periodo di lockdown ci manca moltissimo il live e tutti quei preparativi pre-partenza: dalle prove, ai ritorni in autostrada alla notte, dai semplici gesti come cambiare le corde o mettersi d’accordo su quale set di maglie usare. È uno dei nostri tanti preparativi, come quello di organizzarci per trovare il distributore del metano per l’auto che di solito si rivela una vera caccia al tesoro. Utilizzando strumenti home-made poi, il brivido dell’affidabilità è sempre dietro l’angolo. Una volta a Padova allo Sherwood dopo aver montato gli strumenti ci siamo accorti che il Reactabox non si accendeva. Panico e sudori: cercavamo un tester, è arrivato un cacciavite cercafase. Quella volta è bastato toccare l’alimentatore e si è acceso, probabilmente qualche filo non faceva contatto bene o qualche stagnatura stava mollando.

Ma il brivido al di là degli strumenti lo può regalare anche il viaggio: in un minitour in Slovenia e Croazia, Isi ha dimenticato la carta d’identità. Per andare in Croazia è assolutamente richiesta. In macchina pensavamo a come fare: “Ascolta vado per i boschi e mi vieni a recuperare fra un chilometro”. “Ci sparano Isacco”. “Vai a suonare tu e ti aspetto qui in dogana”. “Dai aspetta, andiamo da quel doganiere che è in pausa”. Gli spieghiamo tutto e nel frattempo ci facciamo mandare la fotografia della carta d’identità da casa e gli mostriamo anche la patente. Non sappiamo bene come, ma siamo riusciti a convincerlo. Un grazie sentito alla dogana croata.

I live per noi è una specie di sport e ce lo diciamo sempre mentre facciamo le scale per caricare in auto tutta la backline: “Dai che è l’unico sport che fai”. E in effetti ogni volta carica, guida, monta gli strumenti, fai il check, suona, suda, smonta, ricarica la macchina, guida per il ritorno e scarica tutto in sala prove. Circa 10 ore in giro. Se non è uno sport questo…

Avendo poi molti strumenti con noi, abbiamo sempre la necessità di arrivare il più vicino possibile al palco e questo ci ha costretto per anni ad infilarci in situazioni urbane letteralmente impossibili: ricordo a Milano dove uno guidava e l’altro occupava un parcheggio da pedone litigando con un suv che voleva occuparlo; oppure a Venezia quando abbiamo caricato tutti gli strumenti su una barca e a piedi con dei carrelli; oppure di una volta a Parma in cui il telefono che faceva da navigatore non funzionava e dato che uno dei due era sceso per arrivare alla location, l’altro ha girato a caso in auto senza indicazioni per quasi un paio d’ore.

Ma anche il grottesco spesso si impadronisce delle nostre avventure: in uno dei primi live ricordo che ci avevano abbinato ad un duo di karaoke perchè il gestore doveva assolutamente festeggiare il compleanno di una cognata. Un binomio proprio azzeccatissimo; ad un certo punto mentre suonavamo, nel bel mezzo di un pezzo, il duo di karoke pian piano tira su i fade, alza la base ed inizia a cantare Ramazzotti sopra di noi. Ci ha fatto ridere per molto tempo la cosa. Fortunatamente però, negli ultimi anni il livello dei live si è alzato un po’ e possiamo dire di aver suonato finalmente in alcuni di quegli spazi che sognavamo da sempre, spazi interessanti e culturalmente all’avanguardia: il Labirinto di Franco Maria Ricci, il Robot Festival e il Cassero di Bologna, lo Spin Time Lab di Roma, lo Sherwood di Padova per citarne alcuni; oltre che tutti i minitour in Svizzera, Austria, Slovenia, Croazia in cui il feedback del pubblico, e per converso i cd che ci chiedono, sono molto diversi dagli standard italici.

Probabilmente di aneddoti live non ce ne sarebbe da riempire un libro, ma una brouchure aziendale sicuramente sì: sulla porta della sala prove abbiamo appiccicato una cartina dell’Italia dove ogni volta al ritorno dal live mettiamo una bandierina sulla città o paese corrispondenti, come in un Risiko; in quasi 10 anni siamo arrivati a circa 300 bandierine. E per ogni bandierina è successo qualcosa o abbiamo conosciuto qualcuno che diventa parte del nostro ricordo sottoforma di una bandierina.

Il vostro quarto album uscito a settembre 2020 è 200.000.000 Steps. Come avete vissuto l’uscita discografica in un periodo di emergenza sanitaria che stiamo vivendo?

(Isacco) Ogni disco è fatto di due lati: uno è su file wav e lo puoi ascoltare sempre; l’altro è sul palco e lo puoi ascoltare solo da noi. Quest’estate eravamo convinti che tutto fosse in via di normalizzazione. Siamo riusciti a fare qualche concerto che anticipava l’uscita del disco, il live del nostro “Release Party” e poi… basta. Ci sentiamo come se avessimo tanta voglia di vedere un amico ma possiamo solo sentirlo per telefono perché è dall’altra parte del mondo… dove la “persona” è il live e il “mondo” è la curva del contagio. 

Ci manca tutto: il viaggio in autostrada o lungo i tornanti di montagna, la birra dopo il check, le amicizie (quante persone NON abbiamo conosciuto nell’ultimo anno?), i problemi tecnici da risolvere, la cena tutti insieme, il concerto, il pubblico che vuole provare il reactaBOX.

Un lato di 200M steps è uscito. L’altro vi aspetta dall’altra parte della pandemia.

200 milioni di passi è un numero incredibile. Come mai lo avete scelto come titolo dell’album?

(Michele) 200 milioni di passi rappresentano una stima del numero medio di passi che compie un umano nel corso della sua vita, circa 5 volte il giro del mondo. 200 milioni è senza dubbio un numero pazzesco, si fatica a pronunciarlo e ancora di più ad immaginarlo, ma rappresenta la lunghezza della vita espressa con un’unità di misura alternativa al tempo: “Quanti passi hai?”

Musique pour les Poissons il nostro secondo album, aveva come tema centrale l’acqua, The Boy Who Believed He Could Fly (il nostro terzo) era invece ispirato all’aria, al volare e di conseguenza anche al cadere e al fallire; 200.000.000 Steps è il nostro disco “di terra”: parla del camminare, del (soprav)vivere su questa palla e di tornarci dentro sotto forma di molecole disaggregate alla fine della nostra passeggiata.

Le tracce del vostro album non rispettano i classici tempi delle canzoni (3 minuti), una arriva persino a durare 8 minuti. In un periodo in cui si punta a creare qualcosa di breve per fare colpo sull’ascoltatore, è una scelta coraggiosa.

(Michele) Già, ma a dire la verità speravamo non se ne accorgesse nessuno di queste durate :-). Fra l’altro dal vivo sono quasi sempre anche più lunghe delle originali… E sempre per dirla tutta queste lunghezze non le abbiamo proprio cercate, sono arrivate più o meno spontaneamente. In questo album infatti (a differenza del precedente) abbiamo deciso prima di imparare a suonare le canzoni e poi registrarle; questo aspetto ha senza dubbio inciso sulle varie durate, in quanto l’approccio compositivo è stato simile alle jam, in cui come in un live, le canzoni vivono un inevitabile dilatarsi dei tempi.

Volendo poi, il tutto strizza un po’ l’occhio anche al “clubbing” con tutti i vari cambi di dinamica e reprise indispensabili a “giustificare” pezzi così lunghi. Probabilmente un pezzo con queste durate non sarà mai radiofonico ma sicuramente dal vivo offre un trasporto completamente diverso. Sempre sulle lunghezze mentre registriamo facciamo sempre un paragone buffo fra la canzone che abbiamo in mano e le dimensioni umane: ad esempio se vuoi accorciare un finale, un intro, una strofa ad una canzone ricordati di rendere la cosa proporzionata al resto, altrimenti avrai un uomo con un corpo normale ma braccia lunghissime, ad esempio.

Nel vostro album l’inglese regna sovrano, tranne in due tracce dove compare la lingua italiana. In quale lingua sentite che la vostra musica sia rappresentata in maniera migliore?

(Michele) Anche in questo caso accade tutto abbastanza spontaneamente, il più delle volte non sei tu che cerchi la canzone ma è la canzone che cerca te e qualche volta ti trova a casa. A volte la canzone che viene a bussare è una canzone inglese, a volte italiana, a volte altro ancora… Una cosa è sicura però, qualsiasi sia la lingua del suo testo è un testo maccheronico; lei arriva così, come uno scemo girovago notturno che è rimasto a piedi in auto sotto la pioggia e viene a svegliarti mentre stai per addormentarti. Arriva inaspettata e grezza. E’ tutta da levigare come una pietra o da pettinare come una parrucca. Poi, una volta aggiustata la sua auto in panne, pian piano si ricompone e (ri)prende la sua forma…

Per quanto riguarda la lingua non esiste una regola certa, anche se con buona approssimazione ci siamo resi conto che quando vogliamo parlare di qualcosa di apparentemente meno serio spesso il testo viene fuori in italiano. Franco cerca un’ora e Scolapasta sono due canzoni serie travestite da “poco serie” possiamo dire.

Nei dischi passati avevamo anche alcuni pezzi in francese e spagnolo, un po’ perché ci piace il poliglottismo diretto, semplice e universale alla Manu Chao, e un po’ perché erano venuti così, fra frasi strappate in conversazioni tra amici e versi sparsi memorizzati in un blocco note sul telefono durante le vacanze o in una pausa in bagno: entrambi momenti di grande relax in cui la mente si esalta, momenti in cui appunto la canzone viene a cercarti.

Qualche anticipazione sui prossimi progetti a cui state lavorando?

(Isacco) A livello di produzioni, abbiamo da poco completato un remix per Es Madd, artista pugliese seguita dagli amici The Dust Realm che uscirà prossimamente.

Poi, abbiamo diversi progetti in cantiere per tenerci occupati durante questo periodo di stop: intanto un nuovo video, come sempre diretto dal nostro videomaker di fiducia Giovanni Tutti; il prototipo di un nuovo strumento che abbiamo chiamato ROTOTUNE: si tratta di dispositivo che interagisce con i pickup della chitarra elettrica attraverso la rotazione di un motore: suonando una tastiera, un motore viene fatto girare ad una velocità tale da interagire con i pickup della chitarra e creare la giusta nota.


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